Nell'antica Roma i vini bianchi, rossi, della penisola italica e d'importazione erano molto apprezzati, ma non è detto che, oggi, quel tipo di vino ci attirerebbe perché, in molti casi, i gusti dei Romani erano molto diversi dai nostri: bevevano vino allungato con acqua di mare, aromatizzato con spezie e addirittura mescolato al garum, la salsa di pesce fermentata sempre presente nella cucina romana.
Le descrizioni degli autori antichi e molti ritrovamenti hanno permesso di ricostruire come era prodotto il vino nel mondo romano.
Chissà quale era il gusto dei vini di epoca romana? Lo hanno scoperto alcuni ricercatori, studiando le originarie modalità di produzione, conservazione e il modo in cui veniva consumato. Gli stessi, sono giunti alla conclusione che i Romani producevano moltissime tipologie di vino e avevano sviluppato una tecnica molto avanzata di coltura del vigneto. Quello che faceva la differenza, rispetto ai nostri tempi, era il lavoro che svolgevano in cantina, il loro scopo era quello di riuscire a conservare al meglio il prodotto che tendeva a deteriorarsi con facilità e doveva quindi essere trattato.
Ma a quale tipo di trattamento veniva sottoposto il vino? Sappiamo che i Romani avevano ereditato le pratiche di viticoltura ed enologia da altri popoli, come Etruschi, Greci e Fenici, e furono i prosecutori di una cultura mediterranea del vino che affondavano le radici nellantichità. Un esempio, è la recente scoperta, avvenuta in Israele, di una cantina risalente al 1700 a.C., tra le più antiche mai trovate: nelle fondamenta di un palazzo a Tel Kabri, un équipe internazionale di archeologi ha rinvenuto quaranta grandi orci di terracotta, con una capienza da 50 litri luno, che contenevano residui di vino. Analizzati, nella Brandeis University (Usa), con tecniche di gascromatografia e spettrometria di massa, hanno rivelato che si trattava, per lo più, di vini rossi aromatizzati con miele, menta, ginepro, cannella e resina di storace, nome volgare della Styrax officinalis L., dal forte odore e sapore aromatico acre. Gli orci rinvenuti nella cantina di Tel Kabri non sono così diversi dai dolia, i grandi recipienti di terracotta, che venivano usati dai Romani dopo la pigiatura per la fermentazione del mosto e la conservazione del vino.
La vinificazione nella terracotta non alterava, sostanzialmente, il vino, ma le resine che venivano utilizzate per impermeabilizzare i contenitori e per sigillare i tappi di legno o di sughero con cui venivano chiusi gli orci finivano per trasmettere il loro sapore al vino. Il gusto era determinato però anche dall'aggiunta, durante la vinificazione, di resine e spezie che avevano lo scopo di conservare meglio il prodotto. Tra i conservanti usati c'erano anche lo zafferano e il mosto cotto.
I Romani, insomma, trattavano il vino con conservanti proprio come fanno i produttori di oggi: non con solfiti, per prolungarne la conservazione, ma con le spezie allora disponibili e con l'aggiunta di zuccheri rilasciati dal mosto cotto.
E la vite? Come veniva coltivata dai Romani? Seguendo letteralmente quanto riportato nei principali trattati di agricoltura dell'antica Roma, scritti da Plinio il Vecchio, Catone, Varrone e Columella. Le indicazioni erano precisissime: distanze da tenere tra le viti, orientamento dei filari, esposizione, modo di mettere le piante a dimora, vendemmia. Rifacendosi alle fonti sono stati ricreati gli attrezzi usati all'epoca, tra cui la cicogna, uno strumento in legno che consentiva al proprietario del fondo di verificare se gli scavi per la messa a dimora delle nuove viti erano stati fatti dai lavoranti con la giusta profondità e dimensione.
La scelta del vitigno propendeva per l'uva apina (amata dalle api) descritta da Plinio il Vecchio e Columella e la pratica di raccogliere l'uva dopo un breve appassimento sulla pianta dava vini considerati dai Romani di qualità eccezionale. Il vino che se ne ricavava doveva essere quindi molto pastoso, nettarino e dal grado alcolico elevato. Per questo veniva diluito con acqua o anche acqua di mare e come già detto persino mescolato al garum.
Quali erano i vini più rinomati? L'elenco dei vari tipi di vino è molto lungo: del Lazio ricordiamo il Prenestinum, il Sabinum, il Velleranum, il Vaticanum, l'Albanum e il Formianum, pregiatissimo; della Campania il Calenum, il Cumanum, il Falenum, molto pregiati, il Gauranum, il Liternum e il Pompeianum, pregiatissimo veniva invecchiato venticinque anni; dall'Abruzzo il Pelignum; dalla Sardegna il Nascum, il Vernaculum ed il Moscatum; dal Veneto il Raeticum; poi ancora provenivano dalla Puglia; dalla Sicilia, il Pollium, molto pregiato; dall'Emilia; dalla Gallia; da Lesbo; dalla Spagna. Mentre tra i vini greci il più rinomato era senza dubbio il rosso di Chio.
Esistevano poi i vini Speziati, meno pregiati: il Conditum paradoxum, vino cotto con alloro, datteri, miele e pepe; il Granum paradisi, un miscuglio di vino, cannella, chiodi di garofano, miele, zenzero; il Gustaticium, vino e miele di solito bevuto prima dei pasti; Ippocras, un miscuglio di vino, cannella, chiodi di garofano, mandorle, muschio, pepe, resina e zenzero; il Rosatum, vino in cui venivano messi in infusione petali di rosa per sette giorni, il procedimento veniva ripetuto per tre volte infine veniva aggiunto del miele al momento di consumarlo; il Violacium come il Rosatum con petali di viole al posto di quelli di rose; poi ancora vino e acqua di mare; vino con pece e mirra; vino con assenzio; vino con lentischio; ecc.
In epoca romana i vini prodotti a Pompei erano molto ricercati per la loro qualità, dimostrata dal fatto che potevano invecchiare anche fino a dieci anni. L'invecchiamento, infatti, era la caratteristica che rendeva questo vino più apprezzato. Considerato che la conservazione era un grosso scoglio da superare i vini che resistevano erano davvero i migliori, appannaggio dei Romani più ricchi, che li ostentavano come status symbol. Nelle loro cene si servivano vini pregiati e invecchiati a lungo nelle anfore, vini rossi che dovevano essere di ottima qualità per potersi conservare negli anni.
I ceti più bassi, invece, consumavano vino in grande quantità, ma di ben altro genere: a Roma nel periodo tra Repubblica e Impero (I secolo a.C.) furono bevuti quasi 2 milioni di ettolitri di vino in un anno. Si beveva in molti luoghi, dalle osterie frequentate dalle classi più umili (popinae), ai locali che offrivano cibi caldi (thermopolia). Quello che oggi definiremmo un normale vino rosso da tavola, per i Romani, era il merum, ossia il prodotto base della vinificazione. E il vino di qualità scadente, anche quando diventava aceto, aveva un suo mercato e veniva consumato allungato, con una proporzione di tre quarti d'acqua e una di vino/aceto si otteneva la posca, la bevanda dei più poveri e dei soldati. Gli schiavi delle campagne bevevano invece un sottoprodotto della vinificazione, la lora, un vino ottenuto dalla macerazione delle vinacce già pressate con acqua. Il risultato doveva essere un vino molto leggero e acidulo.
All'inizio di banchetti sontuosi, si beveva il mulsum, una specie di miscuglio composto da tre parti di vino e una di miele, lasciato riposare per circa un mese in anfore di terracotta, filtrato, e poi lasciato di nuovo a riposare. Venivano utilizzati vini elaborati con diverse ricette a seconda delle occasioni. Si realizzavano vere e proprie mescolanze, a base di vino diluito con acqua e aromatizzato con pepe, spezie, petali di rose e viole, pece, mirra, menta, assenzio, cumino, coriandolo, timo, aglio, cipolla e persino trito di pigne.
C'erano anche vini come il temetum, presumibilmente molto forte e scuro, utilizzato in occasione di celebrazioni sacre.
Grande attenzione veniva riservata alla temperatura del vino, nel triclinium, la sala da pranzo, c'erano contenitori con acqua calda, fresca o addirittura neve per diluire il vino secondo il proprio gusto, che era come abbiamo visto molto diverso dal nostro.
Samantha Lombardi