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L'archeologia a tavola
Il Garum


A Roma, in epoca arcaica, si potevano annoverare tre pasti principali, precisamente: “Jentaculum”, ”Cena” e “Vesperna”. Durante la repubblica scomparve la vesperna e per tutto il periodo classico si ebbero: Jentaculum, prandium e cena. I primi due pasti erano così sbrigativi e moderati da non richiedere che si apparecchiasse la mensa e che si lavassero, alla fine, le mani.

Il vero pranzo dei Romani era la cena, che iniziava verso le 15 e, a volte, si prolungava anche fino all’alba del giorno successivo. I commensali dell’antica Roma disponevano di numerosi prodotti provenienti da ogni parte dell’Impero. Le classi più elevate potevano così organizzare sontuosi banchetti con cui intrattenere i propri ospiti.

Ma per poter imbandire banchetti succulenti c’era bisogno di esperti nell’arte culinaria. Uno di questi fu  Marco Gavio, scrittore latino, (I secolo d.C.), più conosciuto come Apicio, che passò alla storia per l’eccessivo amore che ebbe per l’arte dei fornelli, al cui culto sacrificò l’intero suo patrimonio e la vita. Egli non sarebbe probabilmente passato alla storia se il suo ricettario, il De re coquinaria (in 10 libri), non fosse giunto fino a noi. Fu talmente famoso ai suoi tempi che da allora tutti i cuochi vennero chiamati Apicio.

Ma se sfogliamo le pagine del suo libro rimaniamo delusi prima di tutto perché nelle ricette non sono quasi mai riportate le dosi, gli ingredienti sono in realtà solo dei promemoria. Ciò può essere spiegato con la bravura che ancora oggi viene attribuita agli chef di cucinare “ a occhio“.

Ma a dispetto delle regole di preparazione di ogni tipo di pietanza, sono i condimenti i veri protagonisti della cucina romana, il profumo e il colore dei cibi sono assicurati da due ingredienti sempre presenti: la salsa a base di pesce (garum) e il mosto cotto e addensato (defrutum); ma non mancano il miele, le verdure e le spezie che venivano usate in abbondanza come condimenti, sia singolarmente che mescolate tra loro, tanto da generare un’infinità di gusti che, oggi, il commensale moderno definirebbe disgustosi.

Da Apicio sappiamo che gli abitanti dell’Impero non usavano quasi mai il sale come condimento, un pò per il suo costo e un pò perché con l’umidità tendeva ad ammassarsi per cui diventava difficile da dosare. Esso era sostituito dal garum che veniva utilizzato ovunque anche nella preparazione di dolci, il suo scopo era quello di arricchire, col sottofondo salato-acidulo, il gusto dominante del composto.

Di fatto, la composizione e il procedimento di preparazione del garum appaiono tutt’ora ipotizzate: questo è dovuto al fatto che, essendo così popolare, nessun cuoco aveva la necessità di scriverne la ricetta. Esso, tuttavia, non era realizzato con ingredienti avariati, come invece molti pensano, ma era un alimento altamente proteico, composto da aminoacidi liberi, completamente assimilabili dall’organismo.

Probabilmente il procedimento poteva essere il seguente: dentro un recipiente venivano messi piccoli pesci non eviscerati, quali alici, sardine e sgombri; a questi venivano aggiunti tagli di pesci vari come sgombri,  ricciole ecc., non eviscerati e con la testa. Si aggiungevano delle erbe aromatiche e il sale in quantità pari alla metà del peso del pesce; ciò assicurava il non deterioramento del prodotto durante la stagionatura che si protraeva per circa 2/3 mesi. Quando il pesce aveva raggiunto un buon punto di maturazione, veniva immerso nel recipiente un cestello che, oltre a funzionare da filtro, doveva pressare il contenuto sottostante. Il liquido depositatosi sul fondo veniva raccolto e imbottigliato in piccole anfore di ceramica con tappo di sughero. Commercialmente il garum era classificato come ”garum flos floris” che era una qualità molto scura, grazie alla presenza del sangue dei tonni. Questo tipo di garum, secondo quanto riferisce Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, costava carissimo, quasi 500 sesterzi al congio (è 1/8 di anfora e pari al cubo di mezzo piede, considerando che un’anfora corrisponde a un piede cubito). Di seconda qualità era il liquamen, che probabilmente indicava solo una soluzione di acqua e sale, più o meno la nostra salamoia, ed infine c’era l’alleo, la salsa piccante che Apicio stesso non disdegnava di usare.

Apicio, come abbiamo detto, usa il garum sia come sostituto del sale, sia come ingrediente di cottura con funghi, tartufi, uova e con animali, oggi, non più mangiabili, come ghiri, fenicotteri e pavoni. Ma non disdegna di modificare il gusto del garum dolcificandolo con il miele, inasprendolo con l’aceto, aromatizzandolo con le erbe fini e addirittura lo usa nella composizione della salsa verde, con cui accompagna la cacciagione.

Ma che gusto poteva avere il garum? Probabilmente il sapore salato e l’odore forte era molto simile a quello delle attuali salse o paste d’acciughe.

Il garum, però, non era solo un alimento, esso era reputato anche un medicamento per alcune patologie, ma era anche depurativo e disintossicante. Era addirittura impiegato per calmare i più generici dolori articolari.

Il suo uso proseguì dopo l’era romana, per tutto il Medioevo ed oltre, tanto che nel XVI secolo il vescovo di Montpellier lo produceva con un buon successo di vendita. Nel 1917 Ehrenbaum annotò che era utilizzato in Turchia, in un’isola del Mar di Marmara. Oggi esso sopravvive in alcune famose salse di vino tipiche della cucina mediterranea: la pissalat di Nizza, la tsiros greca e la fesikh egiziana. La vera erede del garum rimane, però, la salsa nuoc-mam vietnamita, che è ritenuta una salsa digestiva, sana e ricca di vitamina A.

Samantha Lombardi
 
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